Il team creativo, di Peter Russel
Per me, non si è veramente vivi se non che in uno stato di attiva ispirazione.
Uno stato benedetto, certo, che non capita ogni giorno. Purtroppo in questi primi mesi del terzo millennio le vecchie nozioni novecentesche continuano a ridurre le nostre vite ad un unico livello d’incoscienza - guadagnare consumare divertirsi o, come sono solito dire alquanto amaramente da anni, - nascita televisione morte- un brutto calco su una famosa frase di Thomas Stearns Eliot. Nella Città d’Arte Campobello di Licata l’ispirazione non solo c’è ma è un’impresa comunale.
In quest’ammirevole attività, ormai più che ventennale, ci sono due poli ugualmente positivi; da un lato un artista e visionario poliedrico e dall’altro un sindaco, coadiuvato da un’amministrazione dinamica e lungimirante, che sa abbellire e immortalare la città non solo con strumenti e risorse economiche e pratiche ma anche, e soprattutto, con opere belle, spirituali e durature come quelle del Maestro Silvio Benedetto.
A questa intrapresa si collega la poetessa Maria Stella Filippini.
“ Ut pictura poiesis ” disse Orazio echeggiando, se non sbaglio, Simonide: Dante ha dipinto su pergamena parole come pietre - si pensi alle tavole della legge dipinte su pietre dalla mano di Dio ( e rotte da Mosè, infuriato dalla testardaggine del popolo ) o alle dodici tavole antico romane. Silvio Benedetto ha dipinto su pietre non solo le parole di Dante ma anche le sue emozioni e le supposte emozioni del popolo d’oggi, che legge le parole di Dante nella prospettiva di sette secoli di storia e cultura.
La poetessa adesso, per chiudere il cerchio, dipinge nuovamente attraverso le parole la pittura benedettiana in una chiave utopica e apocalittica che rigetta il concetto tradizionale della condanna, della punizione dei peccati, pienamente in linea col maestro che afferma di rappresentare “emozioni senza la presenza di un giudizio morale”.
Una dichiarazione dell’ufficio stampa Arus di Roma, in data 3 luglio 1999, riassume succintamente i principi artistici e filosofici sottostanti tutta l’opera: “ Il progetto, fedele alle intenzioni del maestro che lo ha concepito, non intende tradursi in un percorso illustrativo della Commedia dantesca, vuole piuttosto fare del visitatore una sorta di “ fruitore attivo” che ripercorre l’esperienza “vissuta” da Dante condividendone emozioni e inquietudini.
Tra i principali meriti dell’artista - oltre alla perizia tecnica e alla moltepli- cità delle soluzioni formali adottate - la capacità di attualizzare il capola- voro dantesco con riferimenti che riconducono alla storia contemporanea rende l’intero ciclo una sorta d’aggiornamento pittorico, un’appendice visiva del testo del sommo poeta.
Tali “contaminazioni contemporanee” inserite da Benedetto con sottile, quasi elegante discrezione, senza mai contraddire o indebolire la complessa architettura della Commedia, non disturbano, né minano, la coerenza della sintassi narrativa costruita sul modello dantesco”.
Pittore e scultore, scrittore di teatro, romanzi e poesie, regista teatrale e attore, teorico e critico d’arte, bravissimo disegnatore e ritrattista-studioso esperto di filosofia, religione, sociologia, storia e letteratura mondiali, nonché, spirito politico impegnato ma certo non partitico e, meno di tutto, accademico; allo stesso tempo perito artigiano e artista creativo del sacro e del profano; non meno factotum o uomo buono per tutto ma Maestro di tutto, Silvio Benedetto, nato nel ’38 in Argentina è affiorato molto giovane con la sua arte sacra a Buenos Aires e in Messico.
E’ in Italia dal ’60; ha esibito le sue opere in quasi ogni paese d’Europa e nelle più importanti città italiane ma è soprattutto a Campobello di Licata che si trova un ingente corpus coerente ed omogeneo delle sue opere più massicce e significative.
Il suo lavoro più impegnativo è “ La valle delle Pietre dipinte “ una sorta di museo all’aperto con le sue pietre di travertino d’Alcamo, ognuna alta due metri e più, che presentano una visione novecentesca de la Commedia.
Uno stato benedetto, certo, che non capita ogni giorno. Purtroppo in questi primi mesi del terzo millennio le vecchie nozioni novecentesche continuano a ridurre le nostre vite ad un unico livello d’incoscienza - guadagnare consumare divertirsi o, come sono solito dire alquanto amaramente da anni, - nascita televisione morte- un brutto calco su una famosa frase di Thomas Stearns Eliot. Nella Città d’Arte Campobello di Licata l’ispirazione non solo c’è ma è un’impresa comunale.
In quest’ammirevole attività, ormai più che ventennale, ci sono due poli ugualmente positivi; da un lato un artista e visionario poliedrico e dall’altro un sindaco, coadiuvato da un’amministrazione dinamica e lungimirante, che sa abbellire e immortalare la città non solo con strumenti e risorse economiche e pratiche ma anche, e soprattutto, con opere belle, spirituali e durature come quelle del Maestro Silvio Benedetto.
A questa intrapresa si collega la poetessa Maria Stella Filippini.
“ Ut pictura poiesis ” disse Orazio echeggiando, se non sbaglio, Simonide: Dante ha dipinto su pergamena parole come pietre - si pensi alle tavole della legge dipinte su pietre dalla mano di Dio ( e rotte da Mosè, infuriato dalla testardaggine del popolo ) o alle dodici tavole antico romane. Silvio Benedetto ha dipinto su pietre non solo le parole di Dante ma anche le sue emozioni e le supposte emozioni del popolo d’oggi, che legge le parole di Dante nella prospettiva di sette secoli di storia e cultura.
La poetessa adesso, per chiudere il cerchio, dipinge nuovamente attraverso le parole la pittura benedettiana in una chiave utopica e apocalittica che rigetta il concetto tradizionale della condanna, della punizione dei peccati, pienamente in linea col maestro che afferma di rappresentare “emozioni senza la presenza di un giudizio morale”.
Una dichiarazione dell’ufficio stampa Arus di Roma, in data 3 luglio 1999, riassume succintamente i principi artistici e filosofici sottostanti tutta l’opera: “ Il progetto, fedele alle intenzioni del maestro che lo ha concepito, non intende tradursi in un percorso illustrativo della Commedia dantesca, vuole piuttosto fare del visitatore una sorta di “ fruitore attivo” che ripercorre l’esperienza “vissuta” da Dante condividendone emozioni e inquietudini.
Tra i principali meriti dell’artista - oltre alla perizia tecnica e alla moltepli- cità delle soluzioni formali adottate - la capacità di attualizzare il capola- voro dantesco con riferimenti che riconducono alla storia contemporanea rende l’intero ciclo una sorta d’aggiornamento pittorico, un’appendice visiva del testo del sommo poeta.
Tali “contaminazioni contemporanee” inserite da Benedetto con sottile, quasi elegante discrezione, senza mai contraddire o indebolire la complessa architettura della Commedia, non disturbano, né minano, la coerenza della sintassi narrativa costruita sul modello dantesco”.
Pittore e scultore, scrittore di teatro, romanzi e poesie, regista teatrale e attore, teorico e critico d’arte, bravissimo disegnatore e ritrattista-studioso esperto di filosofia, religione, sociologia, storia e letteratura mondiali, nonché, spirito politico impegnato ma certo non partitico e, meno di tutto, accademico; allo stesso tempo perito artigiano e artista creativo del sacro e del profano; non meno factotum o uomo buono per tutto ma Maestro di tutto, Silvio Benedetto, nato nel ’38 in Argentina è affiorato molto giovane con la sua arte sacra a Buenos Aires e in Messico.
E’ in Italia dal ’60; ha esibito le sue opere in quasi ogni paese d’Europa e nelle più importanti città italiane ma è soprattutto a Campobello di Licata che si trova un ingente corpus coerente ed omogeneo delle sue opere più massicce e significative.
Il suo lavoro più impegnativo è “ La valle delle Pietre dipinte “ una sorta di museo all’aperto con le sue pietre di travertino d’Alcamo, ognuna alta due metri e più, che presentano una visione novecentesca de la Commedia.
Il fatto che ci siano elementi vicini alla recente avanguardia - per esempio l’inclusione degli astronauti con Beatrice e almeno l’intenzione di ritrarre Plutone, Dis, come il Pluto di Disney - senz’altro disturberà gli spettatori più puristi ma queste contaminazioni sono pochissime e forse anche giustificabili quando si riflette che non solo l’iconografia dantesca convenzionale ma anche forti influenze o echi del Mantegna, Paolo Uccello, Goya, Ensor e la riproduzione fotografica sono presenti.
Certo il tutto è un grande spettacolo ma non vi è niente di quella spettacolarità commerciale volgarizzante, la pseudo arte hollywoodiana o “pop”. Anzi, mi sembra che sia la sceneggiatura molto varia che i principi morali impliciti sottolineano i problemi pressanti della crisi della fede cristiana e la politica del nostro tempo.
Ebbene, a questo punto, ci si potrebbe chiedere quante siano ancora valide, oggi, delle urgenze avvertite da Dante ai primi del ‘300. A costo di scandalizzare, direi tutte. Quelle urgenze restano valide addirittura come postulazione di fede vissuta e nell’interiore homine, al di là dell’apparato scenografico che ogni religione comporta nelle scelte provvisorie e nelle funzioni rituali della condotta esteriore.
Per questo, a mio avviso, s’impone un ritorno a Dante mediante non una rilettura estetizzante della Divina Commedia, ma piuttosto attraverso un rigoroso riesame delle motivazioni etico-politico-religiose che turbarono l’anima ferita di un cristiano autentico che al clamore esibizionistico ufficiale, intese per tutti - e non solo per sé - opporre un pellegrinaggio interiore, fatto alla luce della ragione e della fede pura, attraverso i regni della dannazione e della espiazione fino al ricongiungimento con Dio, grazie alla riscoperta di quella “retta via” dalla quale si era allontanato a seguito del “ traviamento morale ed intellettuale “ che lo afflisse nel mezzo del cammino della sua vita.
L’opus benedettiano è stato fortunato nel trovare una comunicatrice ed interprete come Maria Stella Filippini Di Caro.
La poetessa che opera e vive a Ravanusa, in provincia di Agrigento, ha pubblicato due raccolte di poesie, Così che io possa (1995, Libro italiano, Ragusa) e Simùn, il vento (1998, Centro Studi Giulio Pastore, Agrigento) Della seconda collezione il critico Licia Cardillo dice: “Scriveva Rainer Maria Rilke: La natura non è capace di raggiungerci, bisogna avere la forza di interpretarla ed impegnarla, di tradurla in qualche misura nell’umano, per trarne a sé la minima parte”.
E’ questa capacità di interpretare la natura, impegnarla, tradurla nell’umano e renderla leggibile che ritroviamo nella raccolta di poesie “ Simùn, il vento di Maria Stella Filippini Di Caro. Le liriche imprimono all’anima un’accelerazione straordinaria e la introducono nei sentieri smarriti del tempo, nelle zone d’ombra che si celano al di là della coscienza, in spazi senza confini.
Il veicolo per questo viaggio verso l’Assoluto è un linguaggio raffinatissimo, duttile, rarefatto, in grado di dire l’indicibile, di cogliere i rapporti tra le cose , le analogie, le pulsazioni della natura, la voce bisbigliante dell’universo.
La poesia della Filippini è prismatica: aerea, intessuta di sogno e di mistero o ardente come il Simùn, il vento del deserto”. (Sambuca di Sicilia, gennaio 1998).
Questo giudizio, posto accanto al saggio di Dino Ales, ci dà un’idea chiara dell’opera poetica della nostra poetessa.
Io riconosco una forte linea di verso libero, con potenti immagini e metafore originali ed appassionanti, pienamente adatte a rappresentare la pittura del Maestro. L’enfasi cade sulle sofferenze dei perpetratori del male, specialmente il male contro l’umanità nel senso sociale e politico, e sulle conseguenti sofferenze, poi sulla voce dell’Angelo, il richiamo all’ordine e l’eventuale perdono universale.
Questa soluzione o risoluzione utopica ed apocalittica rappresenta o testimonia l’umanesimo del Maestro e la profonda umanità della poetessa.
Certo il tutto è un grande spettacolo ma non vi è niente di quella spettacolarità commerciale volgarizzante, la pseudo arte hollywoodiana o “pop”. Anzi, mi sembra che sia la sceneggiatura molto varia che i principi morali impliciti sottolineano i problemi pressanti della crisi della fede cristiana e la politica del nostro tempo.
Ebbene, a questo punto, ci si potrebbe chiedere quante siano ancora valide, oggi, delle urgenze avvertite da Dante ai primi del ‘300. A costo di scandalizzare, direi tutte. Quelle urgenze restano valide addirittura come postulazione di fede vissuta e nell’interiore homine, al di là dell’apparato scenografico che ogni religione comporta nelle scelte provvisorie e nelle funzioni rituali della condotta esteriore.
Per questo, a mio avviso, s’impone un ritorno a Dante mediante non una rilettura estetizzante della Divina Commedia, ma piuttosto attraverso un rigoroso riesame delle motivazioni etico-politico-religiose che turbarono l’anima ferita di un cristiano autentico che al clamore esibizionistico ufficiale, intese per tutti - e non solo per sé - opporre un pellegrinaggio interiore, fatto alla luce della ragione e della fede pura, attraverso i regni della dannazione e della espiazione fino al ricongiungimento con Dio, grazie alla riscoperta di quella “retta via” dalla quale si era allontanato a seguito del “ traviamento morale ed intellettuale “ che lo afflisse nel mezzo del cammino della sua vita.
L’opus benedettiano è stato fortunato nel trovare una comunicatrice ed interprete come Maria Stella Filippini Di Caro.
La poetessa che opera e vive a Ravanusa, in provincia di Agrigento, ha pubblicato due raccolte di poesie, Così che io possa (1995, Libro italiano, Ragusa) e Simùn, il vento (1998, Centro Studi Giulio Pastore, Agrigento) Della seconda collezione il critico Licia Cardillo dice: “Scriveva Rainer Maria Rilke: La natura non è capace di raggiungerci, bisogna avere la forza di interpretarla ed impegnarla, di tradurla in qualche misura nell’umano, per trarne a sé la minima parte”.
E’ questa capacità di interpretare la natura, impegnarla, tradurla nell’umano e renderla leggibile che ritroviamo nella raccolta di poesie “ Simùn, il vento di Maria Stella Filippini Di Caro. Le liriche imprimono all’anima un’accelerazione straordinaria e la introducono nei sentieri smarriti del tempo, nelle zone d’ombra che si celano al di là della coscienza, in spazi senza confini.
Il veicolo per questo viaggio verso l’Assoluto è un linguaggio raffinatissimo, duttile, rarefatto, in grado di dire l’indicibile, di cogliere i rapporti tra le cose , le analogie, le pulsazioni della natura, la voce bisbigliante dell’universo.
La poesia della Filippini è prismatica: aerea, intessuta di sogno e di mistero o ardente come il Simùn, il vento del deserto”. (Sambuca di Sicilia, gennaio 1998).
Questo giudizio, posto accanto al saggio di Dino Ales, ci dà un’idea chiara dell’opera poetica della nostra poetessa.
Io riconosco una forte linea di verso libero, con potenti immagini e metafore originali ed appassionanti, pienamente adatte a rappresentare la pittura del Maestro. L’enfasi cade sulle sofferenze dei perpetratori del male, specialmente il male contro l’umanità nel senso sociale e politico, e sulle conseguenti sofferenze, poi sulla voce dell’Angelo, il richiamo all’ordine e l’eventuale perdono universale.
Questa soluzione o risoluzione utopica ed apocalittica rappresenta o testimonia l’umanesimo del Maestro e la profonda umanità della poetessa.